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La Repubblica – L’Italiano Che Stregò Il Mondo Col Trucco

SI CHIAMA DARIO FERRARI E CINQUANT’ANNI FA HA FONDATO UN’AZIENDA SCONOSCIUTA AI PIÙ MA CHE PRODUCE CREME E ROSSETTI PER I MARCHI PIÙ NOTI. DOVE? OVVIAMENTE NELLA LOMBARDISSIMA “LIPSTICK VALLEY”.

REPORTAGE

Il Venerdì La Repubblica – L’Italiano Che Stregò Il Mondo Col Trucco

Riccardo Staglianò foto di Nicola Marfisi/ Agf

13 agosto 2021

AGRATE BRIANZA (Monza e Brianza). Essere sulle labbra di tutte e sulla bocca di nessuno. È il paradosso di Intercos, la più grande produttrice al mondo di cosmetica. “Per conto terzi”, che spiega perché non ne avete sentito parlare. C’è una discreta probabilità che rossetti, ombretti, mascara delle donne cinesi, americane, europee li abbiano fatti tra qui e Dovera, in provincia di Cremona. La certezza invece è che sulla confezione c’era un altro marchio. Uno qualsiasi tra quelli che vi vengono in mente, dai più smaccatamente lussuosi a quelli da supermercato. Il motivo per cui il racconto di colpo si fa laconico sta nella segretezza fondativa del rapporto tra questo formidabile terzista e le centinaia di suoi clienti.

«Da cinquant’anni lavoriamo nell’ombra: nessuno deve sapere» ride Dario Ferrari, il fondatore di questa multinazionale da 700 e passa milioni di euro di fatturato, circa 5.500 dipendenti e 15 stabilimenti nei vari continenti. Solo alla fine della chiacchierata, constatata la renitenza a fare i nomi, allungherò l’occhio verso uno showroom per notare il logo del leggendario profumo francese, quello dell’iconico stilista italiano e praticamente l’intero sancta sanctorum del lusso internazionale. È il segreto di Pulcinella che mi sono impegnato a rispettare e che, a sua volta, sottende un interrogativo più radicale: dal momento che escono dagli stessi, identici lombi, che differenza c’è tra un rossetto da 80 euro e uno da 8?

BREVE STORIA AZIENDALE

La famiglia Ferrari produce creme per il corpo in Svizzera. Ma lo scapigliato Dario, che ama le corse in auto, vuol trovare la sua strada. Si iscrive al Politecnico di Milano, che lascerà, dopo un incidente rovinoso, per la Bocconi. A Londra lavora come assistente di un account pubblicitario: «Un genio. Da lui ho imparato come capire posizionamento, comunicazione, punti deboli e di forza delle aziende». Una teoria che applica di ritorno in Italia piazzando prodotti di famiglia. Nel ‘72 fonda Intercos. Ma cosa facevate di diverso dagli altri? «Il primo vero successo è stato un ombretto più facile da applicare e più brillante. Realizzato con una tecnologia che quelli del caffè Hag utilizzavano per estrarre la caffeina dai chicchi». Se ne accorge, nel ‘78, Estée Lauder. Lo invitano a New York e gli propongono un contratto multimilionario. Chi è l’italiano che ha stregato i signori americani del make up? Tutta la concorrenza lo vuole sapere. Seguono anni ‘90 al galoppo. Entrano fondi di private equity, quelli pensione, fino al recente fondo sovrano di Singapore, con il fondatore che mantiene sempre il 45 per cento delle quote (e diritti di voto maggiorati).La quotazione in Borsa è fissata per il 2020 ma arriva prima il Covid, che sforbicia gli affari del 15 per cento («abbiamo sofferto meno di altri perché non produciamo più solo trucchi, penalizzati dalle mascherine, ma anche prodotti per la cura del corpo»). In questo mezzo secolo (anniversario 2022) sono sempre cresciuti con una media a doppia cifra. Ritmi da economia cinese. La stessa sulla quale Ferrari ripone le maggiori aspettative. Fine del riassunto.

Come ci sono arrivati? «Abbiamo creato un sistema di produzione molto flessibile che ci permette di venire incontro a qualsiasi esigenza dei committenti. Se han bisogno di milioni di pezzi siamo in grado di consegnarli ma se invece sei un’influencer e vuoi fare la tua piccola linea da zero te la mettiamo in piedi in sei mesi» rivendica questo settantottenne di un pragmatismo quintessenzialmente milanese, alto, dagli occhi blu e i capelli bianchi pettinati all’indietro, insomma con un aspetto attoriale che non deve avergli nuociuto ai tempi del giro dei fratelli Lauder, tra artisti e socialite newyorchesi. È il metodo, più che gli esempi, che gli preme spiegare: «Abbiamo circa 200 persone che studiano la reazioni dei clienti. Sempre più su internet, con importanti operazioni di ascolto del sentimento sui social. Se tanti parlano di rossetti matte, opachi, di acido ialuronico o ombretti brillanti bisogna farli, non c’è verso!». La francese l’Oreal è tra i pochi nomi che fa, giusto per specificare che è forse l’unico a interagire poco con loro. Che, pur essendo i numeri uno, controllano circa il 12 per cento della produzione mondiale in outsourcing.

IL PACKAGING FA LA DIFFERENZA

Se quella di Agrate è la fabbrica dove lavorano il bulk, la materia prima ancora grezza, quella di Dovera, altro estremo di quella che l’Economist ha definito la lipstick valley che da sola varrebbe la metà dei cosmetici mondiali («un’esagerazione» dice Ferrari), è la fabbrica dove escono i prodotti finiti. Mi scortano Matteo Milani, ceo della divisione europea di Intercos, e Angelo Bonfanti, responsabile dell’impianto. Ci sono enormi sacchetti di plastica che contengono polveri di ogni colore, l’oro per i fondotinta, infinite variazioni di rosso da emulsionare per i rouge à levres, che arrivano dalla Brianza. E vengono compattate o colate (seconda fase) da macchine messe a punto qui in tanti anni di perfezionamenti. Con bracci meccanici che iniettano il contenuto dei rossetti in stick che addette in uniforme azzurra e veletta verde controllano, in un delicatissimo equilibrio tra rapidità e cura.La terza fase è quella della confezione finale, ovvero quando il packaging primario (lo stick anonimo o i fondelli di alluminio dell’ombretto) viene alloggiato nelle trousse o nelle confezioni – queste sì diversissime – dei brand. Il più delle volte esce da qui il prodotto pronto per la vendita, più di rado spediscono al committente per l’imbustamento finale.

Scopro ora che una leggendaria marca di scarpe da donna produce un rossetto dalla confezione elaboratissima in vendita sugli 80 euro. Ha un vestito più elegante ma per il resto mi sembra uguale agli altri che magari costano dieci volte meno: «Abbiamo circa duecento possibili combinazioni di rossetti, quindi nessuno è veramente uguale a un altro. E poi per questi serve il doppio del personale, per maggiori controlli» specifica Bonfanti. D’accordo, ma se i costi industriali standard, azzardo, sono di cinquanta centesimi questo magari costerà un euro. Silenzio. Sguardi da poker. «Diciamo che tra il nostro fatturato e il prezzo alla vendita c’è un moltiplicatore tra le sei e le dieci volte» è l’unica ammissione, un dato credo notorio nell’industria, che Milani si concede. Moltiplicatore medio, che nel caso del calzolaio dei divi sfonda il tetto.

BELLEZZA “PER CONTO TERZI”

Dall’alto della mia ignoranza chiedo che tipi di trucchi vogliano le giovani. Milani dice che ormai anche nel loro settore la moda segue le sfilate e cambia di stagione in stagione. Così anche il modo di lavorare imita quello del fast fashion, alla Zara o H&M, per cui decisivo è comprimere i tempi con cui arrivare sul mercato («Questo è il nostro forte»). La vecchia intuizione di Benetton di avere sempre disponibili capi grezzi da colorare all’ultimo per intercettare l’ultima tendenza ha fatto scuola. Meno scontata è la risposta sui valori che le clienti giovani pretenderebbero:

«Leggono gli ingredienti e stanno attente a non trovarne dalla reputazione ambientalmente dubbia. Vogliono plastiche riciclabili per le confezioni. Amano i prodotti naturali quando non quelli vegani. Il che costituisce un problema per il carminio, tradizionalmente ricavato dalle coccinelle. Sempre più dobbiamo trovare alternative ritenute accettabili». Altri tempi rispetto a un tycoon della cosmetica anni 50 che, nel seminale I persuasori occulti di Vance Packard, riguardo all’immane sforzo pubblicitario della sua azienda confessava: «Non vendiamo rossetti, compriamo clienti». Un investimento dal quale, peraltro, Intercos è esentata: ci pensano i suoi committenti.

Ad Agrate, nella fabbrica accanto alla Galbusera incastonata in una delle zone industriali esteticamente meno glamour d’Italia, il fondatore si era lasciato scappare che pochi giorni prima era passata di lì una nota influencer. La Ferragni, a memoria di Google, non ha ancora una sua linea cosmetica: parliamo di lei? Labbra serrate. Ritento a Dovera. Mi sembra che Milani, abbronzato come uno skipper, impallidisca per un nanosecondo sentendo fare quel nome salvo poi smentire categoricamente. Capisco l’orgoglio dei produttori francesi a non voler ammettere che il loro contributo si riduca alla scatola, ma non è evidente che un’influencer abbia bisogno dell’aiuto di professionisti? Mistero. Eppure dalla West Coast americana come dal Giappone ogni giorno c’è qualcuno che scrive o chiama per farsi fare un preventivo. Come trasformare milioni di follower in clienti è affar loro. Intercos si occupa di tutto il resto. Se il suo fondatore potesse parlare ci vorrebbe un attimo per capire che quello del make up è un impero fondato su un trucco.